La teoria del capitale e dell’interesse

Autore:
Filomena Spisso
  • Autore - Laurea in scienze politiche

Introduzione

Come si è potuto constatare dallo sviluppo della teoria della produttività marginale, gli economisti cominciarono a distinguere con maggiore attenzione tra profitti e interesse: questo ragionamento, in effetti, permise di pervenire all’elaborazione di una teoria del profitto che fosse accettata in via generale, anche se va ricordato che la teoria del capitale e dell’interesse non ha cessato di suscitare controversie accese fino ai giorni nostri. Robert M. Solow ha scritto in proposito che “quando una questione teorica rimane ancora al centro del dibattito dopo ottanta anni, allora si può supporre che essa sia posta in maniera scorretta, oppure che sia molto profonda”. Ferguson ha invece suggerito una pluralità di motivazioni a proposito della irrisolta questione della teoria del capitale: “Tutti sanno che la teoria del capitale è una teoria complicata. Vi è una ragione superficiale che può spiegare questa difficoltà ed è il fatto che molta della letteratura sulla teoria del capitale è stata orientata a fini di polemica o verso discussioni puramente semantiche. Ma vi è una ragione più di fondo, che consiste nel fatto che la teoria del capitale implica necessariamente il tempo: e il tempo, a sua volta, implica aspettative e incertezza, sebbene generalmente si prescinda da questi elementi, assumendo uno stato stazionario o un sentiero di crescita da età dell’oro”.

 

La teoria del capitale e dell’interesse

Il primo passo da muovere, quindi, è quello di passare in rassegna lo sviluppo della teoria del capitale e dell’interesse a partire dal 1890. Un gruppo di autori, tra i quali Schumepeter, Fisher e Knight, si impegnò in una ricerca filosofica e di ampio respiro sulla questione del capitale e le ragioni per l’esistenza dell’interesse. Altri autori, toccando solo in maniera superficiale le ragioni a sostegno dell’esistenza dell’interesse, si concentrano invece prevalentemente sulla spiegazione delle variabili economiche che vanno a determinare il saggio dell’interesse. Queste teorie possono essere classificate come teoria non monetaria, monetaria e neo-keynesiana, intendendo con quest’ultima dizione una sintesi degli altri due approcci all’interno di un unico modello, suggerita per la prima volta da J.R. Hicks. Le teorie non monetarie dell’interesse si concentrano su forze reali di lungo periodo che ne vanno a determinare il saggio, e sono perciò riconducibili all’interno della tradizione classica: spiegazioni di questo tipo apparvero fin dall’ultimo scorcio dell’epoca mercantilista e durarono fino agli anni Trenta del secolo scorso. Le teorie monetarie del saggio di interesse, dal canto loro, ricomprendono sia la teoria dei fondi mutuabili, sia la teoria della preferenza per la liquidità. I tre autori più importanti in questo senso per la teoria dell’interesse nel periodo che va dal 1890 agli anni Trenta del XX secolo sono soprattutto Bohm-Bawerk, Knight e Fisher: sarà quindi utile approfondire i loro approcci.

 

Il ruolo dei mercantilisti

Gli economisti mercantilisti avevano sottolineato in particolare il ruolo della moneta all’interno del sistema economico e avevano sviluppato di conseguenza alcune teorie monetarie dell’interesse dove immaginarono che degli incrementi nella quantità di moneta non soltanto avrebbero alzato il livello generale dei prezzi e ridotto il valore della moneta, ma avrebbero anche condotto a una riduzione del livello generale dei tassi di interesse. In verità, vi furono alcuni autori della tarda età mercantilista che svilupparono delle analisi molto più approfondite sulla teoria dell’interesse. Richard Cantillon, ad esempio, nonostante avesse sostenuto una teoria del tipo che abbiamo appena definito non monetario, riuscire anche a sottolineare che gli incrementi nella quantità di moneta avrebbero potuto condurre sia a un aumento sia a una diminuzione dei tassi di interesse; in particolare, se l’aumento dell’offerta di moneta fosse stato inizialmente diretto verso la classe dei risparmiatori, allora il saggio di interesse sarebbe caduto; ma se fosse stato diretto in prima battuta verso i consumatori o gli investitori, allora il saggio di interesse sarebbe cresciuto, visto ch l’incremento di spesa avrebbe senz’altro favorito un incremento degli investimenti da parte degli imprenditori e, a sua volta, un aumento della domanda di fondi mutuabili. La teoria economica classica, concentrandosi sulle forze reali di lungo periodo che determinano la ricchezza delle nazioni, elaborò spiegazioni di tipo non monetario, o reale, dell’interesse. Gli economisti classici erano in altre parole convinti che il saggio di interesse dipendesse dal saggio di rendimento sulle spese per investimento, ossia che le forze di natura monetaria avessero una loro rilevanza soltanto nel breve periodo, mentre nel lungo periodo sarebbe stata la produttività del capitale, vale a dire una forza reale, a determinare i saggi di interesse. In questo caso, molto interessante è quello che ci dice David Ricardo, il quale sintetizzò in modo efficace questa concezione, affermando chiaramente che il saggio di interesse dipende “dal saggio di profitto che si può ottenere con l’impiego del capitale e che è assolutamente indipendente dalla quantità o dal valore della moneta; sia che la banca presti un milione, dieci milioni o cento milioni, questi prestiti non modificano in modo permanente il saggio di interesse di mercato, ma modificano soltanto il valore della moneta emessa”.

 

 

 

SIMONE RICCI