La riforma del sistema bancario italiano nell’800

Filomena Spisso
  • Autore - Laurea in scienze politiche

Introduzione

Scandali e dissesti a catena. Decine di istituti che emettevano moneta. Le finanze dello Stato in salute precaria. Questa era la situazione del sistema bancario italiano nell’800: occorreva dunque cercare di salvare il salvabile. Verso la fine degli anni ’80 del XIX secolo, a vent’anni dunque dall’unità nazionale, erano in molti a ritenere che l’Italia non sarebbe riuscita ad affrancarsi dalle sue condizioni di arretratezza economica e di subalternità politica. Per lungo tempo i governi della Destra s’erano affannati a inseguire il traguardo del pareggio di bilancio, raggiunto infine nel 1876. Ma il risanamento dei conti dello Stato aveva comportato, oltre a ingenti sacrifici da parte dei contribuenti, anche il drenaggio di notevoli risorse verso la copertura di prestiti e titoli pubblici emessi pressoché a ripetizione, e ciò a scapito soprattutto degli investimenti in attività produttive.

 

La Sinistra al potere

Dunque, fu inevitabile, quando la Sinistra costituzionale giunse al potere nella seconda metà degli anni ’70, alleggerire un carico fiscale divenuto sempre più oppressivo e intollerabile e assecondare in qualche modo, attraverso un incremento della spesa pubblica in determinate infrastrutture e particolari incentivi all’agricoltura e all’industria, lo sviluppo dell’economia nazionale altrimenti bloccata su posizioni stazionarie. D’altra parte, né il mercato finanziario né il sistema bancario erano ancora orientati verso una politica di intervento a sostegno delle imprese. Anzi, su questo versante continuavano a sopravvivere non pochi elementi di freno e vischiosità. In primo luogo, per la presenza di compagnie finanziarie, talora legate a filo doppio con importanti gruppi d’interesse stranieri, che badavano esclusivamente a lucrare sulle emissioni pubbliche, sulla compravendita di terre e beni immobiliari, o su particolari operazioni di carattere speculativo. In secondo luogo, perché l’Italia unita aveva ereditato dagli Stati e staterelli della penisola, oltre a una notevole massa di debiti, un complesso quanto mai vario e frazionato di istituti bancari, alcuni dei quali godevano anche del privilegio di emettere moneta cartacea. C’era poi da temere che il dissesto del Credito Mobiliare (costretto infine a chiudere i battenti nel 1893) e quello della Banca Generale trascinassero nel precipizio una parte rilevante dell’industria italiana, già di per sé così fragile.

 

L’esigenza di una riforma

L’esigenza di porre rimedio alle drammatiche condizioni in cui versava il paese ebbe una parte determinante nell’iter che portò alla legge del 10 agosto 1893 sul riordinamento degli istituti di emissione. Dal governo Di Rudinì, che per primo nel 1891 pose il problema di mettere ordine fra le banche di emissione (troppo impegnate nel soccorso all’industria edilizia), al governo Giolitti, che giunse a imporre una riforma radicale del sistema bancario, la preoccupazione di salvare il salvabile e di evitare il collasso della lira e dell’economia italiana fu il filo conduttore delle complesse operazioni che si tradussero infine nella fusione tra Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito e Banca Nazionale, destinata a dar vita alla Banca d’Italia. Giolitti, pur costretto ad agire in un campo minato non solo dai conflitti di interesse fra le diverse banche d’emissione e dall’opposizione di alcune di esse alla fusione, ma anche da altre gravi circostanze (ad esempio, i retroscena dello scandalo della Banca Romana), seppe portare a compimento con consumata perizia quanto con risoluta energia il piano s’era prefisso. Fu lui di fatto l’artefice del riassetto degli istituti di emissione e, successivamente, dell’opera di risanamento monetario e di progressiva restaurazione della finanza pubblica, che si sarebbero rivelate altrettante premesse essenziali per il rilancio dell’economia italiana, in funzione del “decollo industriale” dei primi del ‘900, e per l’inaugurazione di un indirizzo liberal-riformista in un contesto di ritrovata stabilità politica.

 

La Banca d’Italia

Come emerge da molti documenti provenienti da diversi archivi, fu molto importante il ruolo della Banca d’Italia durante una guerra logorante come quella del 1914-1918, giocata in gran parte sul terreno delle risorse economiche, sulla mobilitazione dei mezzi necessari a reggere un urto frontale che appena due decenni prima, all’epoca della disgregazione del sistema bancario e dell’umiliante sconfitta di Adua, sarebbe stato del tutto insostenibile per l’Italia. La Banca, quindi, si identificò nel ruolo pubblico definitivamente assegnatole dalle esigenze di guerra, graduando di volta in volta la sua azione: dal reperimento di nuovi mezzi finanziari adeguati alle spese eccezionali belliche al contenimento degli effetti negativi di tale processo sulla circolazione monetaria e sul corso dei prezzi. La Banca d’Italia divenne insomma la principale fonte di ispirazione del Tesoro e giunse inoltre ad assumere importanti funzioni mediatrici fra poteri pubblici, ambienti finanziari e imprese private. È anche vero, però, che non sempre i suoi appelli e le sue diagnosi trovarono il meritato riscontro: l’istituto centrale italiano si trovò spesso costretto a fare profezie, a cominciare dall’allarmata denuncia nei confronti della scalata di alcune grandi industrie alle principali banche. La Banca d’Italia aveva già presentito nel 1918 i danni che potevano subire gli istituti di credito, i quali sarebbero stati costretti a rivolgersi ad essa per i relativi aiuti: cosa che avvenne puntualmente due anni dopo, in seguito al crollo del gruppo Ansaldo-Banca di Sconto.

 

 

 

SIMONE RICCI