Il patto sociale nel mercato del lavoro
Introduzione
Pensare ad un nuovo patto sociale tra imprese, organizzazioni sindacali e Governo dopo le deludenti inadempienze di alcuni attori nel corso dell’ultimo quinquennio potrebbe apparire un esercizio
sterile, un fatto estemporaneo. Eppure tre grandi elementi, che caratterizzano le economie europee (il crescente peso della spesa pubblica, un processo di globalizzazione in continua espansione e un ruolo pervasivo della “conoscenza”), impongono un’approfondita riflessione sui meccanismi di funzionamento e di governo dei moderni sistemi economici, nonché sugli stimoli ai comportamenti degli attori che vi operano. Gli elementi caratterizzanti il nuovo corso economico hanno peraltro già provocato la richiesta di un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e di una riduzione del ruolo dei patti sociali e della contrattazione centralizzata, fondata sul presupposto che i patti stessi tenderebbero a fissare rigidità nei differenziali salariali e nei modi di operare della politica economica incompatibili con gli obiettivi di competitività imposti dalle circostanze. Convincere oggi le parti sociali e l’opinione pubblica che non è la contrattazione di patti sociali in sé (in alternativa al dispiegarsi delle libere forze del mercato) a determinare conseguenze inadeguate alle esigenze del nuovo corso, quanto il loro contenuto, non è opera da poco. Ciò nonostante, a parere degli scriventi, proprio i grandi elementi sopra richiamati richiedono oggi ancora patti sociali, ma dai contenuti e orientamenti completamente differenti rispetto a quelli degli ultimi due decenni. La prima generazione di patti sociali aveva visto al centro dello ‘scambio politico’ la moderazione salariale contro un aumento della spesa sociale. La seconda generazione si era imperniata sullo scambio tra moderazione salariale e riduzione concertata della spesa pubblica, finalizzata al perseguimento di un obiettivo di portata storica come l’ingresso nell’Unione monetaria europea. I patti sociali dell’età della globalizzazione e della società della conoscenza devono invece avere al centro dello scambio la moderazione nella crescita del salario reale contro la predisposizione delle condizioni per la crescita della produttività. Oggigiorno, in un contesto come quello italiano, la crescita della produttività può scaturire solo da due condizioni: eliminazione delle posizioni di rendita, indispensabile per incentivare gli investimenti produttivi; investimenti nelle nuove tecnologie, nel capitale organizzativo e nello sviluppo delle competenze. Se la prima condizione è il presupposto, la seconda offre le moderne chiavi di lettura per dischiudere la dinamica della produttività.
Le varie spiegazioni al fenomeno
Certamente, il nostro sistema ha manifestato negli ultimi anni un’incapacità di adattare un modello di successo a condizioni diverse da quelle nelle quali aveva prodotto buoni risultati nei decenni precedenti, in modo da far fronte all’accresciuta competitività non solo delle economie emergenti (soprattutto di quelle asiatiche e dei paesi dell’Europa dell’Est), la cui crescita è comprensibilmente molto rapida, ma anche di quelle mature, a noi assai più simili, dei nostri partner europei. L’elemento centrale che manifesta questa incapacità di adattamento del modello italiano è il declino della produttività. Nella pubblicistica il tema è affrontato, da parte dei datori di lavoro e di analisti indipendenti, in termini di rigidità dei rapporti di lavoro e di diseconomie attribuite alle infrastrutture inefficienti, e quindi alla negligenza, all’incompetenza e all’inettitudine delle istituzioni pubbliche. Sul fronte sindacale si assiste ad una continua rivendicazione di un maggior impegno da parte delle imprese nei confronti degli investimenti, della formazione, delle innovazioni e della ricerca, che dovrebbe associarsi a, o scaturire da, un rinnovato generale clima di fiducia nelle potenzialità di crescita del Paese. Le proposte esistenti per superare il gap crescente della produttività convergono nel suggerire l’esigenza di: 1)eliminazione delle posizioni di rendita; 2)investimenti nell’istruzione e nella formazione; 3)programmi strategici di ricerca; 4)misure orizzontali per favorire la diffusione delle tecnologie esistenti; 5)riforme delle procedure e delle regole che governano il mercato del lavoro. L’incremento della produttività che può derivare dall’eliminazione delle posizioni di rendita è argomento dai contorni noti e sembra ci siano degli orientamenti ampiamente sufficienti al giorno d’oggi. Similmente, sono noti gli effetti in termini di efficienza dinamica degli investimenti in formazione di capitale umano e in nuove tecnologie e le misure per la diffusione delle tecnologie. Quindi c’è da sperare che politici ed istituzioni puntino in maniera decisa su di essi, superando gli ostacoli che sorgono dal lato del loro finanziamento. Il punto più controverso riguarda le procedure e le regole che governano il mercato del lavoro, ampiamente divaricate fra una richiesta di ulteriore flessibilizzazione e il suggerimento opposto di un consolidamento della fase di transizione dal rapporto di lavoro precario al rapporto duraturo. Molto è stato detto in questo ambito sui vantaggi dei rapporti di lavoro duraturi, che facilitano il doppio investimento in capitale umano da parte dell’impresa e dei lavoratori nonché gli associati investimenti in nuove tecnologie. Ma esiste un vantaggio ulteriore che ha a che fare con il ruolo che le relazioni industriali possono svolgere ai fini della crescita della produttività nell’ambito delle nuove tecnologie. Per comprendere la natura di questo vantaggio è necessario addentrarsi sempre più all’interno dell’impresa e fare riferimento in modo più puntuale alla sua operatività con le moderne tecnologie.
SIMONE RICCI