Il Benchmark
Introduzione
A partire dal luglio 2000 i risparmiatori hanno cominciato a prendere confidenza con un interessante strumento volto a verificare le capacità del gestore di un fondo. Si tratta del cosiddetto “benchmark“, ovvero un indice o una composizione di indici finanziari, i quali chiariscono al risparmiatore qual è l’identità del prodotto offerto e qual è il rischio cui si va incontro. Il benchmark è dunque un parametro importante di riferimento e si può trovare nel prospetto informativo del fondo. L’obiettivo di questo indice è essenzialmente quello di indicare al risparmiatore in quali tipi di mercati il fondo va a investire. Ciò è sempre utile, ma lo è particolarmente quando siamo in presenza di un fondo nuovo che non ha una storia di rendimenti alle sue spalle. Il risparmiatore, quando vede indicato un certo benchmark nel prospetto di un fondo nuovo, può andare a vedere quali performance abbia ottenuto nel corso del tempo. Ciò non significa ovviamente che anche in futuro quel fondo, essendo agganciato a quel determinato benchmark, offra rendimenti analoghi: ma queste informazioni daranno comunque un’idea al risparmiatore sul tipo di rischio che va affrontando, e se tale rischio si addice alle sue esigenze.
Come valutare il gestore
Con il benchmark il sottoscrittore di un fondo avrà un “compagno di viaggio” che gli indica grosso modo se il gestore si sta comportando bene oppure no. Se infatti il fondo si mantiene costantemente sotto l’indice o l’insieme di indici prescelti, ciò sarà un segnale che qualcosa non sta funzionando. Questo però è vero nel medio-lungo periodo, e non nel breve. In altre parole, il confronto del rendimento del fondo con il benchmark non è significativo se, ad esempio, esso avviene su periodi di tempo inferiori ad un anno: in questo caso, infatti, le differenze tra un gestore e un altro possono essere assolutamente casuali. Comunque, non bisogna pensare che il benchmark venga utilizzato senza precauzione alcuna per valutare i risultati della gestione, perché tale indice è in fondo un portafoglio virtuale, composto da un certo numero di titoli che entrano ed escono in maniera automatica dal benchmark stesso e che salgono e scendono a seconda di come va la borsa. Un vero fondo è invece composto da un certo numero di titoli che devono essere acquistati, venduti, gestiti. Quindi, un vero fondo deve spendere denaro per comprare e vendere le azioni, le obbligazioni e i titoli; per dare consulenza al cliente-risparmiatore tramite il consulente/promotore finanziario o lo sportellista della banca; per fornire informazioni con vari mezzi; per fornire rendiconti periodici personalizzati. Tutti questi costi reali tendono dunque a non rendere perfettamente coincidente il benchmark con il fondo.
Le gestioni attive e quelle passive.
A prima vista, un risparmiatore potrebbe pensare che lo scopo di ogni gestore sia quello di “battere” il benchmark, mostrando in tal modo la sua bravura. In realtà, si possono distinguere gestioni attive da gestioni passive. Le gestioni passive, infatti, sono quelle che mirano ad adeguarsi al benchmark, mentre quelle attive sono quelle che mirano a scostarsi dal benchmark in modo esplicito al fine di ottenere rendimenti superiori. Ad un primo sguardo si potrebbe pensare che sia preferibile una gestione attiva. Ma non è sempre detto che questa sia la realtà. La gestione passiva dovrebbe infatti essere più tranquilla, mentre quella attiva, con la sua maggiore aggressività, potrebbe far correre maggiori rischi a cui forse non si è preparati. Un altro rischio della gestione attiva è poi che, con l’obiettivo di ottenere subito rendimenti elevati, prepari il terreno a cattivi risultati nel lungo periodo.
Come scegliere tra gestioni attive e passive
Sarà dunque solo nel lungo periodo che il gestore che offre una gestione attiva mostrerà di aver battuto costantemente il benchmark e, quindi, di aver meritato la fiducia del risparmiatore. Il quale, comunque è avvertito del fatto che maggiori rendimenti sono legati all’accettazione anche di maggiori rischi. In ogni caso, il gestore che intende scostarsi dal benchmark per cogliere le migliori opportunità sul mercato deve anche dichiararlo esplicitamente. Bisogna poi dire che lo sforzo del gestore di offrire una gestione attiva dovrebbe essere ricompensato da commissioni di ingresso o di gestione più alte rispetto a una gestione passiva, la quale segue l’indice prescelto.
Per fortuna c’è il benchmark
Il benchmark aiuterà a fare un po’ di chiarezza. Chi acquisterà un fondo il cui obiettivo è solo quello di conformarsi al rendimento del benchmark, saprà in partenza che il suo è uno strumento finanziario gestito in maniera passiva. Al contrario, chi acquisterà un fondo che si propone esplicitamente di battere il benchmark sa che la gestione sarà attiva. Può darsi che i risparmiatori considerino questo fattore come meritevole di maggiori commissioni, e forse hanno ragione. Il benchmark è di sicuro una creazione tutta italiana: il nostro paese è stato il primo in Europa a introdurlo, per decisione della Consob, l’autorità pubblica che controlla la borsa.
Simone Ricci per BorsaeDintorni.it