Festival di Cannes 2011: sognando la Palma d'Oro arriva il Premio Ecumenico

Les jeux sont faits, amici lettori. Manca ancora qualche ora alla consegna della Palma d’Oro, è vero, ma i riflettori iniziano pian piano ad abbassarsi, anche forse per creare una certa atmosfera, infondendo quel magico e profondo rispetto che accompagna di consueto l’attimo prima di ogni (sacra) premiazione.

Noi, inutile dirlo, tifiamo a squarciagola per l’Italia e io personalmente per Paolo Sorrentino (e non solo perchè amo alla follia Sean Penn!). Il quale, in attesa dell’epilogo finale, ci fa il regalo di portarsi a casa un primo riconoscimento: il Premio Ecumenico.

La sua pellicola, This Must Be The Place, ha lasciato il segno da subito, portando a riflettere. E tale riflessione ha scatenato una serie di reazioni in coloro che, incaricati di giudizio, hanno scelto di premiare il film.

E come si fa, in effetti, a non restare coinvolti attraverso le immagini e i dialoghi offerti dalla storia di una rockstar che non calca più le scene, ma che non sembra rassegnarsi all’idea di non essere più il giovane divo di un tempo. Così, nonostante i suoi 50 anni, continua a vestirsi, a truccarsi e in un certo qual modo ad atteggiarsi come faceva quand’era famoso. Si lascia quindi trascinare, in parte consapevole e in parte inconsapevole, dalla voglia di non crescere che nasconde il timore crescente di persersi in un banale “nulla”.

Il personaggio di Cheyenne resta quindi indimenticabile, racchiuso nel cuore. Innocente e affascinante ci mostra (senza saperlo) il suo percorso di vita, narrato da un tratto incisivo, lucido, palpabile, che in alcuni punti ci fa trattenere il fiato. Questa la firma di Sorrentino, qui esaltata da uno straordinario Sean Penn (nel ruolo principale), capace di dare il classico “alito di vita” alla figura della rockstar, che affidata a un altro regista e a un’altro attore (mantenendo la trama) avrebbe potuto benissimo perdere di realtà, trasformandosi in una delle tante caricature già esistenti.

In verità Cheyenne è un uomo di mezza età come tanti, sebbene unico. Sicuramente più in difficoltà a causa di un’esistenza che si trascina sulla scia di una vita precedente. Fa di tutto pur di attirare attenzione, per essere riconosciuto nella sua essenza, in ciò che era e rappresentava per i giovani di allora e, nello stesso tempo, nega la sua vera identità sentendosi inadeguato, insicuro, patendo la “grandezza” di miti per lui irraggiungibili che si porta dietro dall’adolescenza.

Un personaggio alla ricerca del suo “io” più interiore. Un viaggio metaforico che presto o tardi spetta a tutti noi. Ed è forse questa consapevolezza che ha coinvolto e stregato quelli che hanno visto e giudicato il film. La dimostrazione pulita della fragilità di uno degli innumerevoli aspetti dell’essere umano.

Tratteniamo il fiato, dunque, senza smettere di incrociare le dita per Paolo Sorrentino e per l’Italia (non sia mai che Nanni Moretti ci riservi delle sorprese, eh?), all’insegna di una profondità d’animo non comune.

Festival di Cannes 2011: sognando la Palma d'Oro arriva il Premio Ecumenico