This Must Be The Place: Sean Penn al servizio di Sorrentino
C’è una costante crescita artistica in Paolo Sorrentino. E’ uno di quei pochi registi ed autori italiani che, seppur fedele ad un proprio stile riconoscibile ed ammissibile (caratteristica questa che attiene ai ‘grandi’), riesce in ogni sua pellicola a trasmettere un segnale di forte espansione, di accrescimento visivo e di linguaggio.
La sua grammatica è ravvisabile e costante e, in questo humus perfetto, Sorrentino riesce a muovere le sue storie e le sue visioni interiori che, c’è da scommetterlo, coincidono senza ombra di dubbio con la crescita emotiva ed esperienziale del regista. Così, con queste premesse di crescita, Paolo Sorrentino approda naturalmente a This Must Be The Place, senza l’ombra di una forzatura, con la naturalezza e la purezza di un animo bambino.
Come quello posseduto dal suo protagonista, Cheyenne. Ed è qui che l’incontro tra il regista italiano e Sean Penn trovano compimento: Cheyenne è non solo il perno intorno al quale si dipana la trama della pellicola, ma rappresenta anche la sintesi artistica di Sorrentino. Entrambi, Penn e Sorrentino, a loro volta al servizio di un film che era una visione tanto attesa quanto non disattesa. Cheyenne-Penn è una star del rock che non riesce più ad esibirsi in pubblico, a causa di un trauma. La sua vita è fatta di routine e stati d’animo al limite della depressione ma, quando il padre muore, Cheyenne decide di ‘adottarne’ l’ossessione: scovare il criminale nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento di Auschwitz. La ricerca del criminale nazista avviene però con lentezza, con i tempi del protagonista, in armonia con il ritmo di vita e di evoluzione interiore che attiene la crescita individuale di Cheyenne. Sean Penn regala al film di Sorrentino, già di suo decisamente ben confezionato, un surplus inestimabile: un signor attore che presta tutta la sua bravura alla visione inquieta ma affascinante di un personaggio e di tutto un film di cui sicuramente si sentirà parlare a lungo…